Per Lucio di Pietro Marcello

Poteva essere un ritratto agiografico di uno dei maggiori cantautori italiani, poteva essere una nostalgica commemorazione di un grande artista che ci ha lasciato troppo presto, poteva essere un pretesto per un carrellata dei più grandi successi di Lucio Dalla. E invece non è niente di tutto questo. E’ un personalissimo atto d’amore, una testimonianza anche degli aspetti meno conosciuti, delle canzoni meno note, uno scavo nella storia soprattutto del primo Lucio Dalla. Quando era ancora un ragazzo timido e goffo che le provava tutte pur sfondare, anche una comparsata allo Zecchino d’oro con la sua mamma, quando non era più un bambino. Scopriamo la storia degli albori, quando aveva difficoltà a mettere insieme il pranzo con la cena e perfino a mettersi ogni notte un tetto sulla testa. Scopriamo tante canzoni che non hanno scalato le classifiche ma dense di storie e di idee.

Ma questo film è ancora molto altro. E’ un racconto sorprendente che dribbla ogni ovvietà, che scavalca ogni aspettativa. E’ una costruzione originalissima che sfrutta in modo sorprendente gli archivi audiovisivi, tira fuori interviste vere, come si usava fare talvolta negli anni 70 ai cantanti emergenti con risposte crude e vere che neppure il più sprovveduto trapper di ogni si sognerebbe di dare, pezzi rari di TV in cui Dalla attacca Craxi sulla questione degli euro-missili, dandogli del tu. E’ la scelta di una voce narrante “ingenua”, quella del suo manager Tobia Righi, a cui viene affiancata quella spregiudicata di Stefano Bonaga, che davanti ad un piatto di tagliatelle vanno a ricostruire i chiaroscuri e la poetica del cantante, dal rapporto con il poeta Roversi fino a diventare autore delle sue canzoni.

E poi c’è la musica, tante canzoni degli esordi che si impastano con i rari repertori a costruire una trama che crea un immaginario, un percorso poetico che tenuto insieme anche con una scelta fotografica piuttosto estrema in cui le immagini sono “sporcate” e consumate fino a rendere solo ricordi, suggestioni, emozioni.

E infine il coraggio di chiudere il film prima che Dalla diventi il grande Dalla ma anche il Dalla più commerciale e forse anche quello meno ispirato. Insomma un film personale e straordinario. Una sorpresa e una rarità.

La nostra storia di Fernando Trueba

Il regista spagnolo che nel 1992 ha vinto l’Oscar con “La belle époque”, una pellicola ambientato agli albori della seconda repubblica spagnola e nel 2016 con The Queen of Spain ha raccontato un pezzo del franchismo, questa volta si cimenta nella trasposizione cinematografica di un romanzo autobiografico. Si tratta di “El olvido que seremos”, scritto da Hector Abad Faciolince che racconta la storia di suo padre, Hector Abad Gomez, medico e attivista per la democrazia nella violenta Colombia degli anni 70. La sceneggiatura è del fratello del regista, David Trueba.

La vicenda familiare racconta di un uomo di scienza di ispirazione liberale che ha coraggiosamente speso la propria vita a difesa dei propri principi democratici e nell’impegno per la salute pubblica e che ha dovuto pagare un enorme prezzo per le sue scelte a causa del clima politico colombiano dominato da bande paramilitari.

Il film utilizza sia il bianco e nero sia il colore, anche nella variante effettata a simulare l’8 mm, per spostarsi sui diversi piani temporali che sono toccati anche circolarmente tra gli anni 60 e gli anni 80. Lo sguardo è quello del figlio del medico, bambino sensibili assai legato al padre e che in gioventù ha studiato in Italia.

Purtroppo né questa scelta né altre trovate (poche) del regista sono in grado di sollevare il racconto da lungo srotolarsi di fatti spesso decisamente poco utili ai fini della comprensione dei personaggi e degli eventi storici. Il risultato finale è una prolissa narrazione minimale nella quale affogano anche i fatti importanti che dovrebbero emergere, perdendo sia la dimensione intima sia quella politica del racconto.

Sicuramente un’occasione persa per Trueba che, forse inseguendo le suggestioni di “Roma” di Cuaron che aveva realizzato un profondo affresco che univa la dimensione intima e familiare con quella politica del Messico degli anni 70, prova a realizzare una parallela operazione sulla Colombia ma con esiti decisamente insufficienti.

Volevo nascondermi di Giorgio Diritti

Nel 1977 la RAI affida al regista Salvatore Nocita la realizzazione di uno sceneggiato dedicato al pittore e scultore naïf Antonio Ligabue, indimenticabilmente interpretato dal compianto Flavio Bucci, appena scomparso. La ricostruzione televisiva fissò nell’immaginario collettivo degli italiani la figura di questo artista dalla difficile vita, segnata da disturbi mentali e grandi difficoltà materiali e da un talento naturale inarrestabile.

Flavio Bucci in Ligabue (1977)

Flavio Bucci. Foto di scena sul set del film ‘Ligabue’.

Rispetto allo sceneggiato televisivo il film di Giorgio Diritti opera alcune scelte fortemente caratterizzanti. Innanzitutto il lavoro straordinario compiuto su e da Elio Germano che interpreta Antonio Ligabue. La trasformazione fisica di Germano opera un avvicinamento visivo sorprendente rispetto alla reale figura del del pittore, che viene reso in modo rigoroso e assai verosimile anche anche nel linguaggio e nella prossemica che porta addosso tutti i segni della sua esclusione sociale, povertà materiale e disagio psichico, senza concessioni o ammorbidimento dei contorni che possano facilitare  facili identificazioni.

Elio Germano

Elio Germano interpreta Ligabue in “Volevo nascondermi”

Dal punto di vista narrativo il racconto procede per quadri dotati di una certa indipendenza gli uni dagli altri, dove l’attenzione è soprattutto nella resa dei contesti ambientali e dei dettagli  piuttosto che sui raccordi o nello sviluppo di linee narrative. Questa scelta di racconto prevalentemente visuale risente probabilmente anche della natura del soggetto. Ligabue è, infatti, uomo che parla poco, spesso si esprime quasi con grugniti animaleschi e il suo rapporto con gli altri esseri umani resta sempre assai limitato e spesso incomprensibile. Il suo mondo di elezione resta la natura e gli animali, gli unici elementi con cui senta un vero e profondo contatto e che sono il soggetto costante della sua opera.

Autoritratto di Antonio Ligabue

Autoritratto di Antonio Ligabue

Le ricostruzioni della messa in scena ripercorrono con precisione accurata tutti i momenti biografici di Ligabue che nasce nel 1899 a Zurigo da una madre che è costretta ad abbandonarlo e concederlo in adozione ad un altra famiglia. Dopo un’infanzia travagliata, già segnata dalle sue malattie, viene espulso verso l’Italia, paese di origine dei suoi genitori, dove vive di stenti e in solitudine ai bordi del paese di Gualtieri, immerso nella natura della Bassa reggiana sulle rive del Po. Qui l’incontro con il pittore Renato Mazzacurati gli permette di affinare il suo talento, fino a raggiungere una certa notorietà già in vita. Unico riconoscimento che gli uomini seppero offrirgli, un piccolo ristoro ad un’esistenza infelice che forse solo la natura e l’arte poterono lenire.

Il delitto Mattarella di Aurelio Grimaldi

Il 6 gennaio 1980 il presidente della regione Sicilia, Piersanti Mattarella, viene ucciso in un agguato. In un primo tempo alcune false rivendicazioni cercano di orientare le indagini verso la pista politica. Ma la matrice mafiosa diventa ben presto evidente, almeno per quanto concerne la sfera dei mandanti. In merito agli esecutori materiali non si è mai raggiunta una certezza giudiziaria. Anche se vi sono indizi che lasciano ipotizzare che gli esecutori possano essere riconducibili all’area neofascista dei NAR. E’ La stessa moglie di Mattarella, presente sulla scena del delitto, a riconoscere quale autore materiale dell’omicidio il terrorista nero Giusva Fioravanti. A raccogliere il corpo della vittima è suo fratello, Sergio Mattarella, attuale presidente della Repubblica italiana. Questa la scarna cronaca dei fatti che sembrano essere stati sepolti dalle nebbie della prima repubblica.

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Una stagione in cui la magistratura e le forze dell’ordine operavano con armi spuntate e la corrente politica del più volte primo ministro, Giulio Andreotti, intratteneva alla luce del sole rapporti con personaggi legati alla mafia.
Il primo merito di questo film è quello di mettersi al servizio della memoria, che è anche un modo per chiedere giustizia per una ferita alla democrazia di questo paese. E sceglie di farlo attraverso strumenti stilistici che richiamano sia alcuni lavori politici di registi come Giuseppe Ferrara e Francesco Rosi sia la fiction di denuncia come La Piovra. L’altro merito, notevole, è la chiarezza e completezza nell’esposizione che, anche a costo di rischiare il didascalismo, non esita a citare nomi, circostanze storico-politiche e sentenze della magistratura. L’ansia di denuncia e di affermazione della verità da parte dell’autore è così forte da indurlo a far ampio ricorso alla voce over e a numerosi cartelli che svolgono un ruolo di supporto oggettivante e storicizzante alla vicenda narrata e che probabilmente stanno anche ad indicare tutta la rabbia e lo sconforto di chi ha vissuto e subito quegli anni di incredibile degrado politico.

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La vicenda di Piersanti Mattarella viene correttamente connessa alla questione del rapporto tra DC e PCI che in quegli anni, sulla spinta delle elaborazioni di Moro e Berlinguer, portò ad un avvicinamento tra le due grandi forze popolari. Infatti Mattarella fu il principale artefice del tentativo di portare anche in Sicilia la politica del compromesso storico. Una politica fortemente avversata dalla Mafia che in questa collaborazione vedeva la saldatura delle migliori energie popolare che avrebbero potuto minare i suoi interessi criminali. Il tentativo di rinnovamento politico di Mattarella faceva sponda sul dialogo con il Partito Comunista allora guidato da Pio La Torre, anch’egli ucciso dalla mafia nel 1982.
In quest’epoca in cui la pochezza politica può indurre a santificazioni inopportune, amnesie storiche e superficialità di analisi politica, ben venga un film che ancora crede nell’esistenza del vero e del falso, del giusto e dello sbagliato. Forse si può incorrere nel rischio di essere giudicati poco sofisticati ma certamente si ottiene il merito di dire cose sensate e comprovate, che di questi tempi non è neppure pochissimo. Nella speranza che anche i più giovani trovino motivi per guardare un film che racconta la storia di anni passati ma i cui effetti sono ancora vivi e la cui lezione è ancora utile.

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1917 di Sam Mendes

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Prima guerra mondiale, fronte occidentale. Due soldati britannici devono attraversare la terra di nessuno per consegnare un importante messaggio che può salvare la vita di 1600 uomini.

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Inevitabilmente la trama rimanda a Salvate il soldato Ryan (1998) di Steven Spielberg  ma la vicenda, minimale, è solo un pretesto per raccontare l’orrore della guerra. Di una guerra poco conosciuta ma che fu la prima orribile guerra su base industriale, in cui la morte ha mietuto milioni di vittime con meccanica spietatezza.

Per comunicare tutto l’orrore possibile, Sam Mendes concepisce un racconto che si articola come un’unico sterminato piano sequenza che produce un’esperienza di immersione totale dentro il contesto di guerra. La potenza di questo piano sequenza fa impallidire la scena di apertura di L’infernale Quinlan (1958) di Orson Welles e desterebbe l’invidia di Alfred Hitchcock che in Nodo alla gola (1948) s’era sperimentato con questa tecnica. Ed anche se non ha battuto il record di lunghezza di Arca russa (2002) di Aleksandr Sokurov  (96  minuti), perché è in realtà composto da diverse scene raccordate, ha una complessità di azione estremamente più elaborata.1917 di notte

Nel lungo cammino che i due soldati dovranno affrontare si attraversano tutti i topoi  dei capisaldi della filmografia sul tema della Prima guerra mondiale. Si percepiscono le atmosfere di desolazione umana di All’ovest niente di nuovo (1930) di Lewis Milestone, c’è la denuncia della follia della guerra come in Westfront (1930) di Georg Pabst,  si avverte la condanna dell’esaltazione militarista, asse portante di Orizzonti di Gloria (1957) di Stanley Kubrick, anche se viene attribuito quasi esclusivamente ai tedeschi. Ma ad alimentare l’immaginario di questo film non ci sono solo queste pellicole del cinema classico. Ci sono sicuramente anche le luci e i colori spettrali di Blade runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve (la fotografia è in entrambi i film di Roger Deakins) che trasportano su piano quasi metafisico lo smarrimento e l’orrore provocato dalla guerra.back stage

Non mancano alcuni eccessi virtuosistici (la caduta da una cascata,  ad esempio) e che sono forse il prezzo da pagare alla precedente produzione action di Mendes, Skyfall (2012) o Spectre (2015), ma questa esperienza è forse stato il background necessario per produrre un’opera visivamente impressionante e che attraverso una regia straordinaria scrive un capitolo fondamentale sulla capacità narrativa del mezzo espressivo cinematografico.