Incontrarsi. Prendersi. Perdersi.
Cosa ci appartiene? Cosa è nostro? Un incontro è uno scambio. Di regali, di forza, di violenza. Il corpo è la nostra frontiera sensoriale. Oltre il nostro corpo comincia il mondo esterno. Il nostro corpo appartiene a noi e al contempo al mondo esterno degli altri. E’ oggetto di attrazione per altri e di acquisizione per noi. E’ una frontiera contesa, come tutte le frontiere. Inevitabili incursioni, inutili barriere, ingannevoli bandiere. Impossibili tracciamenti di linee divisorie. Al di qua della frontiera è la verginità di un giovane donna, imprigionata da un amore, cieco e ossessivo, come tutti gli amori. Al di là della frontiera la vecchiaia di un uomo. Ma ai vecchi non si perdona di amare. Il loro amore è scandalo.
Il corpo è lo strumento dell’incontro, il ponte necessario, senza il quale le rive sono solo abissi. Il punto di mediazione, di cessione di sovranità, in cui non è possibile attribuire appartenenze. I ponti sono spazi extraterritoriali. In occidente i corpi, finalmente (quasi) liberi dalla soppraffazione appartengono ai loro posessori ma questo lascia impraticate le vie d’incontro. Da quella terra di confine tra Oriente ed Occidente che è la Corea, a lungo contesa ed infine contaminata, Kim Ki-Duk disvela un diiverso statuto del corpo. Libero dai gioghi del dominio altrui ma non illusoriamente autoreferenziale. Un senso di appartenenza del corpo che non è possesso. Il possesso implica, infine, una cessione che è cedimento e, dunque, subalternità. Qui l’appartenenza è pertinenza, autonomia di scelta di incontro. E ancora, qui l’incontro destruttura le categorie, abolisce il giogo antico ed ogni altro futuro. Rifugge le dicotomie: amore/non amore, vecchio/giovane, libero/schiavo. Nega ciò che è male ma non afferma ciò che è bene. Affermare su un piano meramente bidimensionale implica una scelta di campo che è ancora schiavitù. Kim Ki-Duk rompe lo schema bipartito, rilancia in nuove direzioni. Riscopre il caso, l’incerto, il mistero. Così l’Oriente incontra l’Occidente. E il regista, la sua opera diventa anch’essa un ponte, da attraversare, ognuno al suo tempo, per incontrare gli altri, non previsti, non attesi.